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Terzo Teatro – Un grido di battaglia

Tre semi e un colpo di vento

introduzione Claudio La Camera

In occasione della mia ultima visita all’Odin Teatret, Eugenio Barba mi mostrò con molto orgoglio il Torii installato nell’area adiacente all’ingresso del teatro. Fui molto felice della novità, perché credo di aver sempre vissuto con il messaggio profondo di questo simbolo architettonico. Il Torii è la porta da cui si accede ai santuari scintoisti e simboleggia l’ingresso verso un’area sacra, sancendo la separazione dal mondo profano.

È anche una metafora della transitorietà della vita, della necessità del cambiamento: non a caso, da più di un millennio, i santuari scintoisti vengono distrutti e ricostruiti ogni venti anni. Il motto giapponese che meglio rappresenta il Torii è “Nana korobi ya oki”, sette volte a terra e otto volte in piedi. È anche il motto preferito da Eugenio Barba, e il primo piccolo seme delle dieci lezioni realizzate nel mese di maggio del 2020, con la partecipazione di Eugenio Barba, Nicola Savarese, Franco Ruffini e Julia Varley.

Per imparare a reagire alle crisi, occorre praticare il cambiamento proprio quando la vita ti spinge all’immobilismo; reagire alla morte, quando la distruzione ti toglie tutto quello che hai. Ripartire da zero, trovare nuove soluzioni per la sopravvivenza. Nessuno può sfuggire a questo compito: lo spiega bene Nicola Savarnese, raccontando come una flotta navale può perdere una battaglia a causa del fatto che nel corso del lungo viaggio le alghe e la sabbia si incollano agli scafi, appesantendoli. Le incrostazioni sommerse, che finiscono con l’essere più potenti dell’armamento che naviga, sono una metafora efficace per indicare la necessità di eliminare la zavorra che si accumula con l’esperienza.

Da un lato la necessità della continuità e l’affinamento dell’esperienza, dall’altro l’ineluttabilità del cambiamento; costruire e demolire, montare teatri ma anche provocare terremoti. Per sopravvivere in questo gioco assurdo bisogna avere coraggio, mettere il cuore al centro del proprio lavoro. Come scriveva Albert Camus, “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.

E qui arriva il secondo seme di questi incontri: quello che Barba definisce “la capacità di innamorarsi del reale”. Compito non facile, lo sappiamo, perché spesso la realtà, o quella che noi percepiamo tale, non è altro che un movimento del falso. Il compito diviene forse più facile quando concentriamo la nostra attenzione non sull’obiettivo di questo amore, bensì sul tempo.

Amare qui e ora, dice Barba, ricostruendo un tempo escatologico in cui il senso delle cose che facciamo non è per noi bensì per coloro che ci seguono fin dall’inizio e che un giorno raccoglieranno i frutti di quello che abbiamo fatto. Chi sono quelli che ci seguono? Il nostro pubblico, i nostri compagni di lavoro, i nostri familiari, ma anche, indistintamente, coloro che verranno, come nella profetica poesia di Brecht, e per i quali avrà avuto un senso tutto quello che abbiamo fatto. “Come what, come may. Time and the hours runs through the roughest day” (Macbeth, atto I, sc.3). I tempi peggiori passeranno; passerà questa crisi pandemica, misurando la nostra capacità di reagire alle difficoltà, eliminando sicuramente i più fragili e i più confusi.

L’aspetto interessante di questa onda epidemica è che ha reso visibile tutta la fragilità di un mondo cresciuto sotto i principi del liberalismo. Perfino lo spazio dedicato ai partecipanti alla fine di ogni lezione contenuta in questo libro ha messo a nudo un grande territorio di incertezza sul presente, e soprattutto l’incapacità di pensare il futuro. Un segno inquietante del fatto che abbiamo perso la capacità di reagire alle crisi, di percepire la realtà in modo diverso da come ci viene imposta dal discorso ufficiale delle istituzioni pubbliche. Abbiamo ceduto alla retorica del potere, che ha fatto della gestione della sicurezza una forma subdola di controllo dei bisogni.

Il nostro modo di agire, di pensare e di sentire è stato orientato per i fini del sistema di potere pubblico e privato, per gli obiettivi dell’economia. Da qui il nostro mutismo, la nostra “disabilità”, risultato di censura e di autocensura di fronte a un sistema che è riuscito a imporre un’etica fatta di luoghi comuni e di opinioni a buon mercato.
Il teatro, come arte indigente, si colloca ai margini del pensiero collettivo. Se è vero che il teatro è “periferia”, indigenza e marginalità — come giustamente segnalato in maniera diversa da Franco Ruffini e Julia Varley — è anche vero che nella periferia possiamo più facilmente scorgere spazi di libertà e di autonomia.

Con il teatro possiamo ancora sognare di cambiare noi stessi e il mondo.

Terzo seme: il teatro come politica con altri mezzi. Probabilmente è la parola d’ordine di quel teatro che cerca, fuori dallo spettacolo, connessioni sempre diverse con la società. È un teatro che si fa spazio politico. Un teatro dove impegnarsi a preservare le diversità, impiegando al meglio le risorse disponibili; un teatro dove ingegnarsi a cogliere le potenzialità dei nuovi ecosistemi culturali, attivando forme sempre diverse di  partecipazione e di condivisione collettiva. È lo scenario del giardino in cui si è unita, alla sapienza dell’uomo, la forza del destino. Il terreno su cui continuiamo a seminare, fiduciosi nel prossimo, ma sempre complici della magia del vento.

Vivere e praticare il teatro, con tale profondità, significa costruire armonia dal caos, svelare la bellezza, come ha fatto pazientemente Julia Varley nel suo lungo percorso con le reti di donne di teatro. A questa profondità si coglie il senso kantiano della bellezza che è senza scopo come nella scena — ricordata da Julia — dell’attrice che scala un monumento in mezzo alla piazza a Bogotá. Quella bellezza era la forza della donna che scalava, non il messaggio che portava, non la sua rabbia.

La ritroviamo nelle parole di una attrice argentina, Valeria Folini, nel manifesto del suo gruppo che parla alle istituzioni sorde alle richieste del teatro durante la crisi della pandemia: “Siamo uniti dalla resistenza: la resistenza alle nostre strutture patriarcali e maschiliste, quelle che costituiscono la nostra  personalità; la resistenza alle organizzazioni sociali ed economiche imperanti; la resistenza alla nostra inesperienza; la resistenza ai divieti”. Una bellezza “inutile” perché senza scopo.

Esiste e resiste malgrado le continue sconfitte. È una bellezza che dà senso alla vita.