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Ginevra Sanguigno e  Il Clown sociale: in-visibile

Ginevra Sanguigno “Il Clown sociale: in-visibile” – l’intervista.

Introduce Claudio La Camera

Claudio La Camera: Vedendo il tuo personaggio si rimane spiazzati. Un po’ ballerina, un po’ teatrante, un po’ mimo. Come ti sei costruito questo personaggio?

Ginevra Sanguigno: La prima cosa che mi viene in mente sono tre emozioni guida nella mia giovinezza: inquietudine, desiderio e…mangiare la vita. Tutto è iniziato da queste tre cose importanti che mi sentivo bruciare dentro e che mi hanno mosso tantissimo. Oggi ho 63 anni e ho iniziato a fare teatro quando avevo 20 anni.

Claudio La Camera: Si però tu hai citato tre cose molto belle però astratte. In realtà tu hai iniziato facendo mimo; hai avuto come maestri gli assistenti di Lecoq e anche Marie Flasch un’assistente di Decroux. Quindi tutto molto tecnico e preciso. Poi hai proseguito con il Butoh, hai avuto come maestro Min Tanaka.

Ginevra Sanguigno: certo però la base era questa inquietudine che muoveva in me il desiderio di canalizzare questa energia che si muoveva e che mi ha fatto scoprire il teatro. E poi ho incontrato questi maestri straordinari che erano severissimi e avevano un’energia pazzesca, una passione incredibile per quel loro lavoro e mi hanno massacrato. Nel senso buono del termine.

Claudio La Camera: come hai capito quale erano le cose che devi fare o le cose che non dovevi fare?

Ginevra Sanguigno. Intanto seguendo il mio sentire “Animale”, cioè capire che cosa mi serviva in quel momento, nelle diverse situazioni. Io stavo cercando, leggevo dei libri e seguivo dei maestri e quando capivo che quella tecnica era giusta per me, andavo dentro ma non a livello superficiale: ci entravo dentro totalmente. Questa cosa mi ha aiutato e mi ha salvato negli anni. Anche dal fatto di non avere fiducia e di non credere in me stessa. Perché a volta il lavoro che fai, nonostante sia intenso, é faticoso e ti scoraggia. Spesse volte non trovi lavoro, e non sei riconosciuto. Allora mi ha salvato questa grande fame e energia che si muoveva dentro e che mi ha aiutato a scegliere i miei percorsi, i miei maestri. Che poi ho seguito. Mi hanno aiutato tanti libri, mi ha aiutato il libro dell’Ista che letto negli anni ’80 (Franco Ruffini, la scuola degli attori). A me interessava la dimensione del viaggio e così ho iniziato a viaggiare senza avere nessun tipo di sostegno economico. Ho iniziato a viaggiare seguendo il percorso di Eugenio Barba, alle radici del Katakali in India, in Indonesia, in Giappone. Continuavo a viaggiare e a nutrirmi di tutto quello che incontravo in altre culture. In maniera miracolosa perché noi tutti sappiamo quanto sia difficile sostenersi solo coi nostri sogni. Ho incontrato maestri straordinari in diverse parti dell’Asia e ancora oggi non ne ho abbastanza.

Claudio La Camera: A proposito dei maestri. Tu dicesti di Barba “è l’unico uomo della mia vita che mi ha fatto fare scelte finanziariamente perdenti”.

Ginevra Sanguigno: Si. Ricordo un suo pensiero: “se uno ha un desiderio molto forte, una passione molto forte, è giusto seguirla. Nonostante le situazioni avverse…

Claudio La Camera: Tu avevi la formazione di mimo, strutturata e riconoscibile visto che lavoravi anche per i teatri stabili e l’hai messa da parte. Avevi la formazione del Butoh che ti è costato otto anni in Giappone con una formazione molto dura e l’hai messa da parte. Ma per fare cosa? Cosa è esattamente il clown invisibile?

Ginevra Sanguigno: Ricordo che nel 1997 ti ho incontrato alla sessione del teatro eurasiano. Ero in crisi perché avevo un bagaglio di esperienze enormi, tecniche corsi, maestri ma non sapevo cosa farmene. Ero totalmente a terra. Tu mi ha parlato del teatro eurasiano e di Linea Trasversale. Il fatto che ci siano persone come te che stanno cercando, mi ha molto aiutato. Questa cosa del clown è arrivata all’inizio come un lavoro. Io non sapevo come arrangiarmi e ho cominciato a lavorare come clown di strada. Ho capito che tutta l’esperienza fatta in precedenza la potevo trasformare in qualcosa che era esattamente quello che stavo cercando: un rapporto con le persone mediato da una maschera buffa e straordinaria che può dire tutto quando dietro c’é sostanza ma che altrimenti dice niente. Ci deve essere qualcosa nell’attore, qualcosa di forte che ti spinge, un’intenzione molto forte che ti spinge nel capire cosa fare. Per me é stato l’incontro con gli altri. Poi successivamente incontrando un grande Maestro che è Patch Adams che è un grande amico, ho visto che questo incontro generava cura, amore, compassione, bellezza, poesia… ed era esattamente quello che stavo cercando: uscire fuori dai teatri, entrare dentro un ospedale, in un ascensore, in una sala di aeroporto e fare quello che sapevo fare (la teatrante, la saltimbanca etc..), tutte situazioni completamente improvvisate.

Claudio La Camera: Penso che non sia possibile scindere la tua esperienza professionale dai viaggi. Tu sei una persona che ha sempre viaggiato. Questa storia del viaggio è qualcosa che ha a che fare con la tua personalità, oppure con questo tipo di clown che tu hai costruito?

Ginevra Sanguigno: Entrambi. Per me viaggiare vuol dire nutrirmi, imparare, leggere la vita. E l’università della vita: cibi, odori, persone, culture diverse, culture teatrali diverse, colori, enti diversi, nature diverse che incontro. E questo è per me un must. Una condizione inequivocabile che non posso sganciare dal mio fare teatro. Conoscere culture diverse e persone diverse è stato e lo è ancora, una scuola straordinaria.

Claudio La Camera: La scelta del teatro è una scelta povera, lo sappiamo tutti. È difficile sopravvivere con il teatro. Però ciò che chiama molto la mia attenzione è il fatto che tu nella scelta povera, hai fatto una scelta ancora più povera, perché poi ti sei scelta un settore di questo mondo teatrale che è ancora più povero, dove casomai sei tu che devi dare e dove non si tiene conto della previsione economica. Hai sempre lavorato in aeree di emergenza del mondo. Svelaci il segreto della tua sopravvivenza.

Ginevra Sanguigno: Sinceramente non c’è niente da svelare. Viviamo con poco. E riusciamo comunque a fare quello che desideriamo. E’ straordinario, è un successo incredibile. È una scelta molto precisa. È vincente. È una scelta che ho fatto e che rifarei. Mi permette di incontrare persone straordinarie. Incontrare ad esempio ragazzi giovani delle scuole, passargli delle informazioni, degli stimoli che gli permettono di accendere le lampadine nelle loro teste…. Io so che le persone a cui si accendono le lampadine poi sono coloro che continuano, perché subentra la passione ed anche la forza che nasce dalla disperazione. Tanti sentimenti che ti fanno continuare.

Claudio La Camera: Ci sono i medici tipo i dermatologi e medici tipo gli oncologi. Gli oncologi ogni giorno assistono allo spettacolo della morte di giovani, di bambini…. Queste persone, così come gli psicologi, stanno a contatto con situazioni estreme e a loro volto hanno bisogno di curarsi. A me quello che colpisce molto è che tu fai un tipo di lavoro in cui stai a contatto con situazioni estreme. Tu ti sei andata a cacciare nei posti peggiori, sei andata a vedere le brutalità dell’essere umano e della violenza. Come fai? È una domanda anche tecnica… c’è una tecnica? Ho visto tante persone che hanno collaborato con te che non ce l’hanno fatta, che sono esplose, che non hanno retto questo livello di vicinanza con la brutalità. Tu hai imparato una tecnica?

Ginevra Sanguigno: Una tecnica non esiste. La vita che cos’è? È un insieme di brutalità e di cose deliziose. Chiediamoci che cosa vogliamo fare della nostra vita. Io me lo chiedo. Chiaramente la pratica negli anni, le persone che incontri, ti aiutano a capire.

Claudio La Camera: Io ti vorrei spingere a raccontare i tuoi segreti. C’è quella frase di un filosofo russo sconosciuto che diceva “Lo spettacolo è finito, gli spettatori si alzano, è ora di tornare a casa. Si voltano e non ci sono i cappotti e non c’è la casa”. Io ti ho visto quando sei tornata dalla Romania. Quando sei andata a fare i lavori negli orfanotrofi, quando è esplosa l’AIDS e c’erano i bambini che ti saltavano addosso e che tu dovevi gestire. E mi ricordo quanti mesi hai pianto. Non è possibile che tu non abbia elaborato una tecnica. Perché altrimenti non avresti potuto continuare a lavorare in quelle situazioni.

Ginevra Sanguigno: Claudio, tu mi vuoi far dire che maneggio una tecnica che spesso non esiste. In ogni caso la tecnica si matura negli anni. Cos’è la tecnica? Sono tutte quelle cose che si sovrappongono, strato dopo strato, e che creano dentro di te un modo, una strategia che tu metti in piedi e metti in pratica quando agisci. Io piango tantissimo, mi dispero. Ho avuto dei momenti pazzeschi di crisi, di chiusura, non andavo più in ospedale…. Ma questi momenti mi hanno insegnato a farmi questa domanda: vado avanti o mollo tutto? Ho letto ultimamente una lettera che Barba scrive a un signore che gli chiede: “cosa possiamo fare in momenti di crisi pazzesca?”. E lui dice: “è un momento in cui le persone che ci sono, rimarranno. Le persone che non ce la fanno, se ne andranno.” È questo. Tu stratifichi, accumuli negli anni (c’è fatica, c’è gioia, c’è bellezza)…. e quando a me è successo di avere dei momenti di grande crisi in cui mi domandavo “perché mi devo accollare questa sofferenza”… ho capito che invece volevo andare avanti perché tutto quello che facevo mi nutriva. Anche la stessa sofferenza ti fa entrare nella vita in una maniera profonda e incomparabile.

Claudio La Camera: Quindi non c’è una tecnica da insegnare per partecipare a questa forma di spettacoli di cui parla il filosofo russo, in cui può succedere di tutto. Tu ai tuoi allievi che cosa dici?

Ginevra Sanguigno: Di lavorare duro, di entrare nelle esperienze in modo intenso. Di parlarne agli altri. Avere una cerchia di amici che ti supportano, ti ascoltano e che condividono con te quello che è la tua esperienza (qualunque essa sia)… perché questa non è l’esperienza di una che fa teatro nei teatri chiaramente. Però può servire a qualcuno, a qualcosa. Non c’è una via di mezzo. Non c’è “faccio il clown sociale dalle 5 alle 6”. Lo faccio sempre, ci sono dentro perché ne sono convinta, ho passione e con generosità mi metto a disposizione degli altri e mi diverto. Dico ai miei allievi questo: di andare dentro con onestà, intensità, in tutte le cose che vogliono fare.

Claudio La Camera: Per fare il clown sociale bisogna avere delle tecniche o no?

Ginevra Sanguigno: Allora noi proponiamo delle formazioni dove si imparano delle tecniche che sono tecniche teatrali di base o che vengono dalla giocoleria e dalla clownerié. Queste cose ti insegnano a rompere il ghiaccio quando non sai che cosa fare… perché il rapporto con le persone uno a uno è molto speciale. Nel senso che entri in un’intimità molto speciale. Non sei sopra un palcoscenico. Entri nelle stanze, nel letto delle persone. E quindi questo rapporto poi te lo devi giocare. E l’unico modo per giocartelo è fare esperienza. Le prime volte qualcuno ti manderà a quel paese e poi ritenti e ritenti. E se non è una cosa che fa per te, lasci perdere e fai un’altra cosa. Magari non fa per te l’esporti in prima persona. Però quello che dico ai miei allievi è di tentare, essere onesti e di non mollare.

Claudio La Camera: La situazione peggiore che hai vissuto?

Ginevra Sanguigno: Una delle peggiori è stata in Costa d’Avorio. Eravamo in questo centro di Madre Teresa di Calcutta, dove c’erano delle donne straordinarie, monache incredibili, che si prendevano cura della gente che andavano lì a morire. Erano bimbi ma anche gente adulta rinchiusi in un hospice. Era una situazione tragica. Dovete immaginarvi di essere con in Africa con di fronte delle persone che magari possono essere bambini piccolissimi (di un anno o anche meno) che nascono già con l’AIDS e che andranno a morire poco dopo. E queste donne li accompagnano fino alla morte. Quindi degli scenari infernali, che io non avevo mai visto prima nella mia vita. Una cosa pazzesca. Entriamo con un sacerdote in una sala dove c’erano delle donne che stavano morendo. Molto magre. Sottilissime. Sembravano delle carte veline. Ed erano sdraiate. Era uno scenario dantesco. All’inizio io ero paralizzata. Ero l’unico clown insieme a un altro, mi sembra di ricordare. Eravamo raggelati, non sapevamo assolutamente cosa fare e stavamo andando via. Poi… siamo in Africa… abbiamo visto vicino a noi degli Jambè enormi in un angolo e allora istintivamente ho detto: “ma perché non suoniamo? Io non so suonare, ma proviamo”. Abbiamo cominciato a suonare e abbiamo visto queste ombre che si alzavano dai loro letti e ballavano con gioia!

Domande

Valerio Apice: C’è una frase che ho sentito ripeterti spesso e che mi lascia sempre un po’ inquieto a cui non saprei rispondere: il rapporto uno a uno riguardo le tecniche. Credo esista un modo, non credo che tu arrivi accanto al lettino e dai un pugno in testa al bambino. Utilizzi la fisarmonica in un certo modo, con un’empatia straordinaria. Però ritorna sempre in te questa frase “non sei su un palcoscenico”. E mi inquieta. Credo che da 30 anni abbiamo capito che il palcoscenico non è veramente il palcoscenico. Spesso il palcoscenico potrebbe essere un luogo in cui stai recitando per il pubblico, stai recitando (come diceva qualcuno) per Dio. Quindi io trovo che a volte c’è proprio una relazione tra il rapporto che tu crei di fronte a un lettino con un bambino, con un anziano, e sul palcoscenico. Tu ci credi? Può esistere un palcoscenico (all’aperto o al chiuso) dove tu recuperi tutta quella attività empatica che tu fai e che ti ho visto fare (siamo stati insieme in Brasile), di avvicinamento o di non avvicinarsi troppo, di mantenere questa sorta di equilibrio. Può esistere un modo equivalente che su un palcoscenico ti avvicina a un ipotetico spettatore?

Ginevra Sanguigno: Allora, io intendevo il palcoscenico nel senso materiale del termine: il pubblico da una parte e il palcoscenico dall’altra. Ho capito bene quello che mi dici. Nelle formazioni certamente noi esploriamo questo tipo di distanza con diversi tipi di esercizi. Però l’esperienza nel mio percorso di clown sociale è veramente sul campo. Questa distanza, questo modo di avvicinarsi a chi mi guarda, questa sorta di corteggiamento e di lavoro sull’energia che si crea, riesci ad acquisirlo solo con l’esperienza. Con tanta esperienza. Ci sono in questi anni clown estremamente dotati, sia a livello tecnico che a livello teatrale. E sono meravigliosi. E sono anche molto utili per questo lavoro che facciamo. E poi ci sono molti clown volontari che non sono particolarmente dotati a livello teatrale o tecnico, ma hanno una grande generosità e nel nostro modo di fare il clown, questa è una qualità imprescindibile, importantissima. Ci sono tanti modi di fare il clown negli altri contesti in cui io lavoro che sono altrettanto importanti. Io lavoro con tantissimi volontari che sono straordinari a livello di generosità e a livello di empatia e ottengono altri risultati altrettanto importanti. E nei nostri contesti questi risultati sono importanti tanto quanto le migliori performance. Volevo velocemente raccontarvi che c’è anche un libro dietro tutto questo di cui stiamo dialogando e che proprio da questo libro partiva la proposta del nostro incontro. Il libro è stato scritto nel 2000 ed è stata un’esigenza che ho sentito di riportare tante esperienze accumulate che finalmente ho deciso di mettere per iscritto. Ritengo che la scrittura sia molto importante. La scrittura mi ha dato la possibilità di approfondire, di esplorare ad esempio il carattere clown nell’arte, nei movimenti dei futuristi, dei dadaisti, e ancora il clown nella spiritualità. E nell’arte della prendersi cura degli altri. Ho così cercato di studiare le origini storiche del clown … scrivere a un certo punto (se hai cose da raccontare ovviamente) è un’esperienza che ti permette non solo di approfondire in maniera moto importante ma anche di riflettere e capire bene cosa stai facendo. E’ stato interessante anche riscoprire il lavoro artistico delle donne clown, non ce ne sono tante ma io ne ho conosciute molte che facevano inoltre un altro tipo di intervento. Più gentile e più amorevole.

Vincenzo Mercurio: c’è una curiosità che ho e che mi è sempre interessata, un po’ per passione, che è la parola politica. Sicuramente in tutto quello che tu fai c’è anche un senso politico. Hai attraversato dagli anni ’70 ad oggi tanti cambiamenti, non solo di tipo sociale…. Però quando arrivi in questi luoghi con queste missioni, ti ritrovi sempre di fronte a situazioni che sono estreme…. Io penso: “in 30 anni non è cambiato nulla?”.

La domanda è questa: che valore ha per te oggi questa parola, quanto va trasmessa e con quale significato? E in questi 30 anni la speranza che qualcosa cambi, che delle cose non siano più così possibili? (immagino che in te sia forte questa speranza o no?).

Ginevra Sanguigno: La speranza c’è. Continua ad esserci. La parola politica per me è quello che faccio, semplicemente. Non ho mai accettato, fin dal momento in cui mi sono messa ad agire con il teatro in una certa direzione… e di nuovo Barba mi ha dato una grande indicazione perché il teatro non era quella cosa lì fatta dentro un box nero chiuso, con le persone che ti guardano e pagano un biglietto e poi se ne vanno anche se gli ha fatto schifo quello che hanno visto…. Barba mi ha dato una grande indicazione perché quando parla all’attore parla ancora di lotta. E quindi questo percorso politico mi ha aiutato molto negli anni perché l’ho ripercorso con tutte le mie forze e le mie energie. E ho visto i risultati incontrando le persone che in conseguenza ai nostri incontri, decidevano dopo di mettersi in gioco e di cambiare vita. Questa per me è il modo migliore di fare politica attiva. Ed é stata lo stimolo alla vita che faccio. E tutto questo rilancia in me anche la speranza. Che, ad esempio ha creato anche l’incontro di oggi che accade in un momento pazzesco, disastroso dove noi ancora abbiamo la forza e l’energia di trovarci (oggi 43 persone). L’altra volta con Eugenio eravamo molti più di 100. Ed eravamo tutti ancora lì ad ascoltare questo vecchietto che parla di lotta. Questa è speranza.

Nino Racco: A proposito di approfondimenti, volevo che tu approfondissi il momento del “dare”. Cioè, cosa stai dando tu? Collegandoci al discorso della generosità…. Il dare nel momento in cui tu sei clown o attrice o non so cosa.

Ginevra Sanguigno: Non so bene cosa risponderti. Quando faccio il clown vado un po’ in trance. Sento molto l’energia degli altri. Sento molto l’energia della persona che mi sta davanti e viaggio su questa onda magica dove sento che la persona reagisce e ha un momento di giovamento reale nella interazione che si crea. Sento che tutto questo è una cosa che nutre me e nutre anche l’altra persona. Non è un dare. È un dare e ricevere continuo.

Claudio La Camera: Il mondo associa la parola clown a altre due parole: riso/ridere e comico. Se poi andiamo ad approfondire, se studiamo… c’è quel saggio molto bello di Bergson sul riso che vi consiglio di non leggere perché è molto pesante. Però cosa vediamo lì?…. Come usi te il riso e il comico? Quando fai questi incontri usi sempre il riso? Usi sempre il comico? Quando lo usi? Come lo usi? E quando non usi queste due cose che fai, che fate?

Ginevra Sanguigno: Ti faccio un esempio che mi fa morir dal ridere. L’anno scorso ero in Russia e entro in una stanza d’ospedale. Io sono magra e ho le orecchie a sventola. Chiaramente quando faccio il clown uso tutto quello che ho a disposizione. Usate il vostro corpo. Usate tutto perché tutto può servirvi. Il mio clown è smilzo per come è vestito. Entro in questa stanza dove ci sono queste 4 donne grandi, russe e musulmane, non so… c’erano i bambini nel letto, erano 8 per stanza… Io entro, non parlo niente di russo. Non sapevo bene cosa fare. Le quattro “donnone” mi guardavano come per dire “ma che cosa vuoi?”. E allora ho cominciato a ballare in maniera sensuale, ma con il mio fisico, la mia faccia….(un po’ conosco le loro danze). Una di queste ha cominciato a dare delle botte con il suo grande culone al mio culo più piccolo. E poi ci siamo affiancate. E così abbiamo passato 25 minuti ridendo fino alle lacrime. Questa capacità di improvvisare è importantissima. Quando viaggi é utile imparare almeno 2 parole della lingua locale, una canzone di quel tipo di cultura, capire che se una donna ha un fazzoletto in testa, un uomo non andrà lì a provocarla mentre, tu come donna, puoi interagire con lei e fare un sacco di cose. Chiaramente informarsi, capire la storia di un paese, leggere, studiare, son tutte cose che ti possono aiutare tantissimo in questo mestiere.

Claudio La Camera: Torniamo a quello che diceva Bergson che il riso ha due dimensioni: una psicologia interna, ma l’altra è un messaggio sociale. Tu devi capire dove ti stai inserendo perché altrimenti rischi di creare un effetto controproducente in una cultura diversa.

Ginevra Sanguigno: Ma per questo il viaggio mi ha sempre affascinata. Come i primi viaggi che mi raccontava Barba… tu impari questi codici che sono un ridere diverso, un modo di atteggiarsi diverso, di alzare le sopracciglia, di fare un gesto che vuol dire quella cosa lì, di parlare… per me vuol dire vivere con tutti quei nuovi mondi dentro.

Italo Bertolasi: Ho seguito Ginevra in molti di questi viaggi soprattutto nei paesi in guerra (Afganistan, Cecenia, Gaza…) e una qualità che vedevo e che va fuori dai riferimenti di un teatro tutto al chiuso, è quella di portare il proprio amore e di curare. Ginevra è molto brava… ma quasi tutte le donne clown sono molto brave perché questo maternage che loro offrono al mondo con il trucco del clown potrebbe essere uno strumento come tanti altri (ovviamente tecnico). Ma io credo sia invece qualcosa di straordinario. Insegna, tornando alla parola politica, a riunire la società con l’amore. Io ho visto Ginevra prendere in braccio, in contesti difficili, le persone più sfigate, più in difficoltà. E farlo proprio come sa farlo una donna. E si vede proprio la differenza. la mia domanda. Quanto è importante oggi che le donne in tutte queste attività artistiche e creative, che sono ancora diciamo dirette da un punto di vista maschile, entrino in azione per scardinare alcune regole e rendere l’atto teatrale ancora una volta un atto rivoluzionario e politico che riporta proprio alla vita? Quanto sono importanti oggi le donne clown?

Ginevra Sanguigno: Sono importanti.

Alessandro: Nell’ottica di quelle che definirei nel modo più generico possibile “arti della relazione”, il clown ha questo modo unico, veloce e istantaneo di abbattere le barriere tra sé e la persona che ha davanti. Ora, se c’è, qual è la correlazione tra il lavoro su se stessi (anche sul proprio corpo) e la relazione con chi hai davanti?

Ginevra Sanguigno: E’ importantissimo. Siamo degli atleti. Un buon training che hai alle spalle è un buon lavoro che ti sarà utile. Lo puoi scegliere in base ai tuoi talenti. Io ho fatto molta danza, ma mi sono sempre allenata, ho fatto yoga e ho studiato i repertori teatrali asiatici. Ma avere un corpo dove l’energia circola, un corpo che senti che ti sostiene e che risponde si agli stimoli esterni, che all’energia tua interiore è molto importante. Più il corpo è allenato più diventi sensibile. Avere un corpo che hai saputo risvegliare è importantissimo. Io nelle mie formazioni massacro gli studenti.

Sergio: Ritorno al concetto del dare. Però più sul piano personale. Mi chiedo, nel momento in cui un clown sociale è così tanto immerso nel contatto con l’altro ed è in viaggio con così tanta diversità, se c’è un modo in cui si può dare se stessi. Nel teatro ovviamente la generosità è il primo valore da perseguire secondo me, ma c’è una dose in cui può essere anche rischioso mettere davanti agli altri se stessi? Cioè lo spogliarsi di tutto quanto davanti a qualcuno che sta vivendo qualcosa di difficile, può essere rischioso? Non solo nel causare delle crisi ma ci deve essere una linea di separazione tra quando si sta facendo qualcosa per l’altro e se stessi. Una sorta di protezione. Esiste, è necessaria, è superflua?

Ginevra Sanguigno: La parola rischio è strana… certo che si rischia. E certo che essere totale in quello che fai è un rischio, ma è anche una scelta che a me ha ridato moltissimo coraggio di andare avanti. Ci sono stati dei momenti in cui questa scelta mi ha fatto male, mi ha causato dei momenti molto duri. Ma sono contenta di essermi esposta così tante volte, di aver rischiato così tante volte. Perché poi quello che è tornato indietro dall’aver voluto affrontare questo rischio ha costruito quello che sono adesso. Quindi si, puoi sicuramente schermarti, proteggerti. Ma io non ti so parlare di come proteggerti. Io ero talmente intensa nelle mie interazioni che a un certo punto ho dovevo fermarmi, prendere dei periodi per me, capire se volevo andare avanti proseguendo per quel mio percorso. Questi periodi di crisi mi hanno fatto capire che invece avevo voglia di proseguire ed ero ancora più motivata ad andare avanti. Con maggiore intensità. E sempre con la stessa totalità. Il fatto di essere totale nella vita e nelle mie scelte è sempre stata la scelta giusta. Quando invece cercavo delle vie per proteggermi e risparmiarmi, mi sono trovata a non riportare quello che volevo, non ottenere quello che volevo. Essere totale nelle cose che ho fatto fino ad adesso è sempre stato per me importantissimo.

Ambra Chiara: Che cosa fai quell’ora prima, quel minuto prima di entrare nella stanza in cui ti devi relazionare ed essere in ascolto totale, essere disponibile a capire com’è la situazione e afferrarla al volo. A me è capitato di lavorare come clown negli ospedali pediatrici o nelle carceri e a volte c’era voglia di ridere, di giocare, ma molto più spesso mi capitava che i pazienti non avevano voglia o non erano disponibili a un’apertura. A me veniva da tirarmi indietro. Riuscivo a trovare a volte altre forme di relazione perché non sempre il riso o il gioco sono la cosa che conta, ma quando mi tiravo indietro mi veniva da chiedermi: “se avessi continuato, se avessi forzato e fossi andata avanti, sarebbe stato utile o vale sempre la pena di ascoltare qual è la situazione e tirarsi indietro? Come si fa a capire quando continuare e quando è meglio rispettare la scelta dell’altro di chiudersi?

Ginevra Sanguigno: Prima di entrare in ospedale io non faccio niente di speciale. Anche se durante i nostri corsi di formazione diamo invece un sacco di suggerimenti (tipo: inventiamo un rituale tribale…) che poi possiamo usare o non usare. Io non uso niente di speciale. Non faccio meditazione. Ma c’è questa grande esperienza di tanti anni che ho raccolto e che mi aiuta a percepire abbastanza in fretta dove sono e a entrare un po’ in relazione. La mia attitudine di questo momento è di non avere aspettative. Se riesco ad instaurare una relazione va bene, altrimenti vado in un’altra stanza. Poi rifletto su quello che mi è successo e mi accorgo che la vita è questa cosa qui: ci sono persone a cui piaci subito e persone a cui fai schifo. Ma va bene così. Questa è la vita e quindi non ci sono tecniche speciali. Prova strategie diverse. Se un giorno quella cosa lì non ha funzionato prova a pensarne un’altra… magari tieni un diario di tutte le volte che certe cose non hanno funzionato e con chi eri (quanti anni aveva la persona che incontravi, in che posto eri, in che situazione eri tu quel giorno). Prendi appunti, segnati tutte le condizioni di quella giornata e prova a capire magari per una prossima volta come cambiare strategie (magari aggiungi un campanello, un carillon). E’ molto utile a mio avviso prendere appunti ogni tanto su quello che si fa se non vuoi scrivere…. Che situazione c’era in quella stanza d’ospedale, quanti anni aveva la persona che incontravi, se c’era anche il genitore che era da una parte e magari aveva un problema…. Cioè di non lasciare mai che le cose accadano per caso, ma invece siano stimolate dalla tua esperienza…che ti chiede di studiare insomma, di essere curiosi…e di raccogliere una infinità di dettagli. Dettagli!

Irene Di Lelio: La domanda è relativa alla questione che hai sollevato prima rispetto al rapporto con le persone uno a uno. E che tu hai detto “è molto speciale, è molto intimo”. Te lo chiedo perché quando ho fatto un progetto con delle donne con tumore al seno, (chiaramente tutti casi molto diversi: situazioni molto gravi, situazioni meno gravi), una di queste donne si è rifiutata di parlare con me. Nel senso che nel momento in cui siamo scese un po’ più nel dettaglio lei mi ha risposto “io ho problemi molto grandi di questo e questa occasione qui, il teatro, è un po’ una banalità.” È stato uno schiaffo perché chiaramente in un momento di confronto in cui si dovrebbe istaurare una relazione molto profonda però immediata, ricevere una risposta così… Perché se c’è una resistenza e un muro di quel tipo, ti crolla tutto addosso. E allora ti chiedi: “che sto facendo con il mestiere che faccio se il male della situazione, del mondo, cade sopra e spazza via tutto?”. Mantenere la lucidità per riuscire ad andare avanti in quella situazione specifica è molto complicato. La domanda è più intima però: come parte per te una relazione personale con una persona specifica che tu incontri in questi momenti? Da uno sguardo, da un contatto fisico? Tu hai detto “entro in trance e ascolto l’energia della situazione e della persona e rispondo a quella”, però partirà da un impulso preciso?

Ginevra Sanguigno: La storia del trance la intendevo come un momento magico. Che a volte può succedere ma che non succede sempre. Invece alla tua domanda rispondo in questo modo: nella relazione con l’altro mi chiedo sempre chi sono io? Cosa voglio? Tu cosa volevi da quella persona, che ti riconoscesse perché tu sei un bravo clown, sei buono e sei andato lì a fargli del bene? Ed è una cosa che io mi chiedo ogni volta: io voglio qualcosa dall’altro? O io sono invece al servizio dei bisogni dell’altro. E non voglio niente personalmente. Esiste la persona che mi sta davanti semmai. E cerco di capire come posso fare qualcosa, come posso creare un momento magico di amnesia che la discosti da questa sua dolorosa situazione. E poi ti faccio un esempio: nel 2019 sono stata in Malesia a tenere un corso per clown di corsia. Un giorno mi invitano in un centro per donne malate oncologiche (alcune ancora in cura ed altre guarite). Avevo un numeroso pubblico di donne proprio davanti a me. La amica che mi aveva invitato mi presenta dicendo: “adesso Ginevra ci spiegherà come fa a fare il clown”. Allora chiamano una ragazza del pubblico, la fanno sedere davanti a me. Mi dice: “io ho un tumore gravissimo, e non posso essere operata quindi morirò”. Io non sapevo cosa fare. Ero raggelata. Non mi avevano preavvisato di questa cosa. Sai allora cosa ho fatto? Mi sono messa a quattro zampe e ho fatto il cane. Ho cominciato ad abbaiare, a mettere la mia testa sulle sue gambe. E poi dicevo “Io non so, non posso fare niente…se posso fare qualcosa dimmelo! ”. E lei all’inizio non riusciva a fare niente. Tutte le donne erano in completo silenzio. Io sudavo. Poi, piano piano, questa ragazza ha cominciato ad accarezzarmi come si fa con un cane. Lei non era malata. Avevano fatto una sceneggiata ma sembrava vera. Cosa allora mi ha spinto a fare il cane non te lo so dire. Ma mi sembrava la cosa più giusta da fare in quel momento. Una cosa assurda. Ma che ha funzionato!

Chiusura

Claudio La Camera: Ti ho citato quella bellissima frase del filosofo russo, per sottolineare forse la cosa più intrigante del lavoro che tu fai e cioè “dove sono gli spettatori? Esiste una categoria di spettatori?” Perché nella maggior parte dei tuoi lavori sono tutti dentro. E in altri casi magari ci sono 3 categorie: voi (attori), quelli che coinvolgete, e ci sono gli spettatori che guardano quello che state facendo voi. Ma una cosa è sicura: che alla fine di quel miracolo (testo, codici), hai perso la casa. Cioè nella metafora del filosofo… alla fine dello spettacolo ognuno di voi ha perso un po’ le coordinate. Deve ricostruire le cose basiche per riuscire a capire cosa è successo quel giorno.