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Gli eroi di Lampedusa

Cosa sapremmo delle civiltà antiche senza le iscrizioni, gli oggetti e l’iconografia trovati nelle tombe? Alcuni dei nostri cimiteri sono diventati un museo vivente delle lotte per la giustizia e per la libertà perché i morti non smettono mai di turbare il sonno dei vivi. Raccontare la loro storia permette di ricostruire una memoria condivisa.

A Lampedusa arrivano morti ogni giorno; anche d’inverno con il mare in tempesta. Anche adesso. Sono eritrei, somali, egiziani, sono donne, bambini e uomini che hanno accettato il rischio della morte per cercare il cambiamento da una vita di sofferenze. Si sono piegati alla schiavitù per pagare il prezzo del viaggio, hanno subìto la prigionia e le violenze sessuali, hanno vissuto la paura di una mare buio e infinito che cancella ogni memoria dei corpi dispersi.

Verso Lampedusa partono ogni giorno, con il coraggio degli eroi medioevali, con la certezza della morte e la passione per la vita.

Da questa gente che sfida l’impossibile per trovare un futuro abbiamo molto da imparare. Il nostro pessimismo esistenziale ci impedisce di capire e anche di giustificare la presenza di un estraneo nella nostra terra. Dovremmo sapere benissimo che le identità non possono esistere senza le relazioni con gli altri e che negare rifugio e protezione a un essere umano disperato significa anche rinunciare a capire il mondo nel quale vogliamo vivere.15

Il volto triste dell’occidente impallidisce, di fronte alla traversata dei disperati provenienti dal deserto. Non hanno mai visto il mare, non sanno nuotare ma sanno di avere una missione: chi cerca di raggiungere la moglie e le figlie in Germania, chi cerca cure per il figlio malato di leucemia, chi spera di partorire in una terra libera. Molti arrivano senza vita. Negli ultimi venticinque anni circa trentatremila persone sono morte durante l’attraversamento del mediterraneo. Più della metà di questi è rimasta inghiottita dal mare; il resto di questi eroi senza identità sono lasciati in fosse comuni nei cimiteri dei paesi del sud Europa.

La politica dell’emergenza li ha trasformati in numeri, in cadaveri senza nome: una cifra in un luogo sconosciuto. Dopo la tragedia del 3 ottobre 2013, in cui sono morte 368 persone, l’Italia ha attivato l’unico programma esistente per il riconoscimento delle persone scomparse: ancora troppo poco, considerato che gli altri paesi europei non collaborano adeguatamente. Inoltre mancano risorse finanziare e umane, le politiche dei governi europei subisce le spinte del nazionalismo.

Oggi ha vinto un sistema contraddittorio: il “si” e il “no” all’accoglienza dei rifugiati si alterna secondo gli umori politici del momento; si cerca la collaborazione della società civile e nello stesso tempo si adotta una politica persecutoria nei confronti di chi aiuta i migranti. Non è facile sbarazzarsi degli eroi; la loro morte diventa simbolica, i loro corpi popolano i cimiteri e li trasformano in luoghi dove si riannoda il racconto della memoria collettiva. E quando le barche arrivano al porto di Lampedusa, molti sopravvissuti baciano la terra tanto sognata, qualcuno chiama in Libia per dire “sono vivo!”. Da un altro lato del porto c’è una barriera di silenzio: sfilano lunghe linee azzurre, luminose come stelle cadenti: sono i cadaveri degli eroi che volano sopra la burocrazia del rito dell’accoglienza e raggiungono il cimitero.

Per loro non ci sarà la possibilità di disporre l’autopsia, neanche il tempo di tentare il riconoscimento. Prima di imbarcarsi hanno dovuto distruggere i documenti, il loro nome, la loro storia.
Poi, un giorno, i volontari e le famiglie lampedusane hanno deciso di restituire a questi corpi un’identità e una dignità. Qualcuno ha donato la propria tomba di famiglia per seppellire Welela, una ragazza eritrea di venti anni. Welela era stata rinchiusa nei campi libici e la sera del viaggio fu ferita dall’esplosione di una bombola di gas. Fu messa sul barcone con il corpo completamente ustionato. Arrivò a Lampedusa senza vita. Le vittime più frequenti sono sempre le donne, violentate nei campi libici, abusate dagli scafisti.

Durante il viaggio vengono sistemate al centro del gommone insieme con i bambini. Saranno le prime a morire, perché quando il gommone affonda, cede proprio dal centro. Così è morto Yusuf, il bambino di sei mesi in arrivo dalla Guinea. La sua tomba colorata è un atto di denuncia contro la politica sovranista che ha trasformato l’Europa in un grande muro. Così è morta Ester Ada, nigeriana di 18 anni. La barca mercantile turca dove viaggiava insieme con altre 153 persone era rimasta quattro giorni ferma in alto mare a causa di un conflitto burocratico del governo maltese e del governo italiano.

Sulla lapide di Yusuf leggiamo che era un eritreo arrestato senza motivo in Libia. Voleva raggiungere la moglie e il figlio che si trovavano nel centro di accoglienza in Svezia. È stato fermato da un mare azzurro che gli uomini hanno riempito di spine. Tutte le lapidi di questi martiri della frontiera recano il simbolo di una piuma impigliata in un filo spinato; quello che rimane dello slancio di tanti verso la libertà. Sono stati i volontari dell’Associazione Mediterranean Hope/Fcei, coordinati da Francesco Piobbichi a dare degna sepoltura a questi morti senza nome.

In questi anni il cimitero di Lampedusa è diventato irrequieto: le lapidi parlano di una morte inaccettabile, di un sistema di valori dove non ci può essere posto per la diseguaglianza e per l’ingiustizia.